Dopo La Trilogia di New York, pensavo di conoscere già la voce di Paul Auster. Quella scrittura ipnotica, precisa, che ti porta a perderti dentro domande più che dentro storie. Ma Nel paese delle ultime cose è stato un altro tipo di smarrimento. Non mentale, ma emotivo. Qui non ci si perde in una città come New York, ma in un mondo che si sta disfacendo. E tu, lettore, insieme a lui.
La trama
Anna Blume entra in una città senza nome per cercare il fratello, un giornalista scomparso. Ma quella che trova non è una città vera: è un luogo che cade a pezzi, dove le cose scompaiono. Letteralmente. Non solo oggetti, ma anche le parole per descriverli. È un mondo che si consuma, lentamente, e dove sopravvivere è già un atto eroico.
In questa città, la gente raccoglie la spazzatura per rivenderla, vive nei rifugi, sparisce nel nulla. Esistono addirittura squadre che si occupano di “ritirare” i cadaveri trovati per strada. Eppure, nel mezzo di tutto questo, Anna osserva. Si muove tra ospedali improvvisati, biblioteche abbandonate, incontri strani e momenti di umanità che sembrano impossibili.
La storia è raccontata in forma di lettera: Anna descrive cosa ha vissuto, chi ha incontrato, cosa ha perso. Vive in rifugi improvvisati, incontra persone che sopravvivono raccogliendo spazzatura o vendendo resti. C’è una dolcezza ruvida nei suoi incontri, una delicatezza nel modo in cui Auster racconta i gesti più semplici — mangiare, dormire, condividere un libro.
Non succede molto, se pensi alla “trama” in senso classico. Ma succede tutto, se pensi a quello che resta.
Lo stile di Auster
Essenziale, senza fronzoli. Ogni parola sembra scelta con cura, come se non potesse permettersi sprechi. La forma epistolare rende tutto ancora più intimo: sembra che Anna stia parlando proprio a te. E mentre tutto intorno crolla, la sua voce resta lucida, ostinata, incredibilmente umana.
La mia esperienza di lettura
All’inizio è stato disorientante. Perché è un libro che non ti dice dove andare, non ti promette nulla. Ma poi, come Anna, ho imparato a camminare in quel paesaggio rotto. Ho trovato forza nei piccoli dettagli, in certi gesti gentili, in alcune verità dette sottovoce. Non è stato facile, ma è stato necessario. È uno di quei libri che ti lasciano vuoto, ma anche vigile.
Vale la pena leggerlo?
Sì, se ti piacciono i romanzi che scavano dentro senza urlare.
Sì, se cerchi una storia che parla di sopravvivenza senza diventare un racconto eroico.
No, se hai bisogno di trama forte e ritmo veloce: qui si va piano, si osserva, si respira il silenzio.
Nel paese delle ultime cose non è un libro che intrattiene. È un libro che resta. Anche quando chiudi l’ultima pagina.





Lascia un commento