Non sono una grande nuotatrice (sono più il tipo che affoga in acque basse), ma mi affascina il cinema sportivo quando smette di parlare di record e medaglie e inizia a raccontare ossessioni, corpi, fallimenti e resurrezioni. Ho scelto Nyad proprio per questo: volevo vedere come il cinema contemporaneo, prodotto da Netflix e diretto da documentaristi di fama, affronta la storia di una donna che decide di attraversare 177 km di mare aperto a sessant’anni suonati.
La trama
Diana Nyad (Annette Bening) è un’ex nuotatrice professionista che, trent’anni dopo aver abbandonato le competizioni, decide di tentare di nuovo l’impresa impossibile: nuotare da Cuba alla Florida senza gabbia di protezione. Al suo fianco c’è Bonnie Stoll (Jodie Foster), amica e allenatrice, che diventa bussola emotiva e ancora di salvezza. Non è solo un film sulla resistenza fisica, ma un racconto sulla sfida contro il tempo, i traumi e la fragilità umana.
La regia e lo stile
Elizabeth Chai Vasarhelyi e Jimmy Chin vengono dal documentario (Free Solo), e questo si vede: l’acqua è filmata come un personaggio, viva, minacciosa e allo stesso tempo ipnotica. Le sequenze di nuoto hanno un realismo viscerale, mentre i momenti dialogati sono più rigidi, come se i personaggi servissero funzioni narrative anziché incarnare persone reali. È interessante notare come la grammatica del documentario contamini la fiction: a volte dà forza, altre toglie naturalezza.
Punti positivi
- La chimica tra Annette Bening e Jodie Foster è magnetica: bastano due sguardi per reggere un’intera scena.
- L’oceano come protagonista silenzioso è un colpo visivo e concettuale riuscito.
- Il film riesce a trasmettere la fatica e la grandezza di un’impresa apparentemente assurda.
Punti negativi
- Alcune semplificazioni della storia vera tolgono complessità.
- Il terzo atto allunga il suspense in modo artificiale: lo spettatore sa già come finirà.
La mia esperienza
Guardando Nyad mi sono sorpresa a tifare, a trattenere il fiato come davanti a una finale sportiva, ma anche a scuotere la testa quando la sceneggiatura diventava troppo didattica. Alla fine però mi sono sentita esausta come se avessi nuotato anch’io, e questa è la magia del cinema: metterti dentro un corpo che non è il tuo.
Non è un film perfetto, ma è una riflessione potente su cosa significhi invecchiare senza arrendersi, e su come l’oceano, con la sua immensità, resti uno dei luoghi migliori per perdersi e ritrovarsi.





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