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Ho deciso di guardare Expats per due motivi: Nicole Kidman e Lulu Wang. La prima non ha bisogno di presentazioni, è una di quelle attrici che riesce a trasformare ogni primo piano in un trattato sull’anatomia del dolore. La seconda, invece, è la regista di The Farewell, uno dei film più delicati e devastanti che abbia mai visto sulla famiglia e sul senso di appartenenza.
Quando ho saputo che Wang avrebbe diretto una serie ambientata a Hong Kong sul mondo degli espatriati, sapevo già che sarebbe stata una storia di malinconia sottile.

E avevo ragione.

Trama

La serie segue tre donne – Margaret, Hilary e Mercy – ognuna sospesa in un territorio che non le appartiene del tutto. Margaret (Nicole Kidman) è una madre che vive nel tormento dopo la scomparsa del figlio. Hilary (Sarayu Blue) affronta la crisi del matrimonio e della propria identità. Mercy (Ji-young Yoo) è una giovane che cerca di perdonarsi e di capire chi è.

La trama in sé non è complessa, ma in Expats non conta tanto “cosa succede”, quanto “come si sente l’essere in quella situazione”. Lulu Wang non racconta eventi, racconta stati d’animo.

Regia e stile

La regia di Lulu Wang è contemplativa, quasi meditativa. Ogni inquadratura dura un po’ più del necessario, ma è in quel secondo in più che la serie trova il suo respiro. Wang osserva il silenzio, la tensione nei gesti, il vuoto tra le parole.

C’è un po’ di Tarkovskij nel modo in cui dilata il tempo, un tocco di Wong Kar-wai nella solitudine urbana, e un’eco di Chantal Akerman nel modo in cui trasforma la quotidianità femminile in poesia visiva. Expats non si guarda in fretta, si abita lentamente.

Oltre al dramma personale, la serie è anche un ritratto sociologico del privilegio. Le donne occidentali vivono in una bolla di sicurezza, mentre tutto intorno a loro si muovono lavoratrici locali e immigrate che rendono possibile quel mondo.

L’episodio dedicato alle collaboratrici filippine, che la domenica occupano le strade di Hong Kong per vivere un momento di libertà, è forse il più bello e il più politico della serie. Lulu Wang sposta il centro della narrazione: toglie il fuoco dalle protagoniste privilegiate e lo porta verso chi solitamente resta ai margini.

Punti forti e deboli

Il coraggio di Expats sta nella sua lentezza. Non spiega tutto, non chiude le ferite, lascia spazio al dubbio.
Però sì, a volte il ritmo è estenuante. Alcuni episodi sembrano esercizi di stile, e l’interpretazione di Kidman — pur intensa — tende a esagerare il dramma. Come se portasse sulle spalle il peso simbolico di un film di Lars von Trier a ogni battuta.

Ma nonostante questo, la serie riesce a costruire un fascino strano: la bellezza di ciò che resta sospeso, di ciò che non si risolve.

La mia esperienza

Lo ammetto: all’inizio mi sono annoiata. Poi ho capito che quella lentezza era il punto. Il lutto, in fondo, è proprio questo: un’eternità compressa in un istante. Ogni personaggio cerca di dare forma al vuoto, e la serie ci costringe a restare dentro quel vuoto insieme a loro.

Quando sono arrivata all’ultimo episodio, ho provato quella sensazione strana di stanchezza e chiarezza insieme. Expats non ti regala un finale, ti lascia con un’eco.

Expats non parla di ciò che si perde, ma di ciò che rimane. È una serie sul silenzio, sullo spaesamento e sulla colpa, filmata con un’eleganza che a volte fa male. Ed è proprio questa la sua forza: essere bella nel modo in cui lo sono le ferite che non si chiudono mai del tutto.

2 risposte a “Expats”

  1. Vista parecchi mesi fa, direi che le tue conclusioni sono appaiate alle mie. Però devo dire che, sbiadendo, non mi ha lasciato molto.

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    1. Capisco quella sensazione, sai….anche per me è rimasto più il clima che la storia. Alcune cose già svaniscono però quel mood sospeso resta un po’ addosso, forse è una serie che si ricorda più per l’atmosfera che per i dettagli

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