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The Mad Women’s Ball mi ha attirata per il titolo, forse perché da un po’ di tempo sto pensando alle storie che sfiorano tutto ciò che è stato chiamato per secoli isteria, eccesso, devianza, parole usate come chiavi per chiudere le donne in stanze che non avevano chiesto. Mélanie Laurent, con la sua sensibilità un po’ febbrile, sembra voler entrare proprio in quel territorio dove la fragilità diventa diagnosi e la sensibilità, patologia.

La trama (senza spoiler)

Eugénie è una giovane donna dell’alta società francese di fine Ottocento che sente gli spiriti oppure, a seconda dello sguardo, sente verità troppo scomode per essere ascoltate. La sua famiglia decide di internarla alla Salpêtrière, l’ospedale psichiatrico dove le donne finiscono per qualunque cosa esca dal copione della “normalità”.
Il film segue i suoi giorni in quell’ambiente, le relazioni che intreccia con le altre pazienti e soprattutto con l’infermiera Geneviève, che porta addosso una compostezza capace di incrinarsi nel momento giusto. La storia è semplice, ma abitata da un sottotesto denso: quello che conta davvero è ciò che accade negli interstizi, nelle frasi trattenute, nella postura dei corpi, negli sguardi che sanno più delle parole.

Regia e stile

Laurent filma come se respirasse insieme alla scena: lentamente, ma con una tensione costante. La luce ha quel tono febbrile, sospeso, che sembra provenire direttamente dai quadri simbolisti; i corridoi del manicomio sono bianchi, enormi, quasi progettati per inghiottire chi li attraversa.
Il ballo delle “folli”, che dà il titolo al film, è una di quelle sequenze che si incastrano da qualche parte nella memoria: visivamente sontuoso, emotivamente devastante. Una teatralità inquietante che trasforma la sofferenza in spettacolo.
Sul piano teorico, è impossibile non pensare a Foucault: il corpo femminile come territorio di controllo, la psichiatria come dispositivo di ordine, la diagnosi come strumento di disciplina. Il film sembra dialogare con tutto questo senza diventare mai un saggio travestito da narrazione.

Punti positivi e negativi

Positivi

  • L’atmosfera costruita con cura, dove l’architettura stessa diventa un dispositivo narrativo.
  • La relazione tra Eugénie e Geneviève, che vibra di contraddizioni e tenerezze trattenute.
  • La critica sociale presente in modo naturale, quasi incorporata negli spazi e nei movimenti.

Negativi

  • L’ultimo atto accelera troppo, togliendo densità emotiva a ciò che era stato preparato.
  • Alcuni personaggi secondari sono promettenti ma restano appena sfiorati.
  • Per chi preferisce una narrazione lineare, il miscuglio tra spiritualità e realismo può sembrare sbilanciato.

La mia esperienza di visione

Guardare questo film è stato un processo lento, quasi epidermico. A tratti mi sono sentita a disagio, non tanto per le scene in sé, quanto per il riconoscimento di dinamiche che, sotto altre forme, esistono ancora oggi. In altri momenti, invece, ho provato una strana tenerezza, come se quelle donne zittite nella storia, archiviate come casi clinici trovassero finalmente uno spazio per respirare.
Alla fine ho chiuso lo schermo con quella miscela di malinconia e rabbia lucida che arriva quando il passato sembra avvicinarsi un po’ troppo al presente. Non è un film che offre risposte, ma cambia lo sguardo o almeno, ha cambiato il mio. Forse l’ho scelto proprio per questo, avevo bisogno di una storia che mi spostasse di qualche millimetro, che mi facesse ricordare che ciò che viene chiamato follia, spesso, è solo un modo diverso, e potentissimo, di percepire il mondo.

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