Las locuras non è il classico film che metti su per caso mentre cerchi qualcosa da vedere a occhi mezzi chiusi sul divano.
È un film messicano del duemilaventicinque, scritto e diretto da Rodrigo García, figlio di Gabriel García Márquez, con una chiara fascinazione per personaggi femminili pieni di vita interiore, conflitti e crepe.

È disponibile su Netflix ed è uno di quei titoli da tenere in lista quando si ha voglia di qualcosa che non consola, ma ti guarda dritto.

La trama

La storia si svolge a Città del Messico, seguendo sei donne diverse, ognuna sull’orlo di una piccola grande catastrofe personale

  • una donna agli arresti domiciliari, che guarda il mondo da una finestra e cerca di non perdere del tutto il controllo
  • una che lavora con la morte degli animali e comincia a dubitare del proprio ruolo
  • una psicologa che, fuori dallo studio, non riesce più a gestire il peso della propria famiglia
  • un’attrice che ha paura di non riuscire a tenere insieme corpo, mente e immagine
  • una figlia che rincorre un legame affettivo sempre rimandato
  • una donna benestante che scopre quanto la propria tranquillità poggi anche sul dolore degli altri

Professioniste, madri, figlie, partner, figure considerate affidabili e funzionali, che però stanno arrivando a un limite che non riescono più a mascherare.

La descrizione ufficiale dice che il film esplora emozioni portate al limite, tra aspettative familiari, pressioni sociali, autocensura e desiderio di libertà. In pratica vediamo donne che, per anni, hanno fatto la cosa giusta, o almeno ciò che il mondo si aspettava da loro, prendendosi cura degli altri, reggendo il peso emotivo della famiglia, funzionando benissimo al lavoro e tenendo i propri bisogni abbastanza in silenzio da non dare fastidio a nessuno.

Finché la famosa follia, che il film nomina quasi con tenerezza, non arriva come malattia, ma come saturazione. È il momento in cui la normalità smette di essere neutra e diventa semplicemente insopportabile.

Le loro storie a volte si sfiorano, a volte si incrociano leggermente, non per preparare un grande colpo di scena finale, ma per lasciare addosso la sensazione che nessuna di loro stia crollando davvero da sola. Sembrano isole separate, ma sono collegate dalla stessa marea emotiva.

Regia stile e modo di guardare queste donne

García filma Las locuras come una serie di confessioni senza confessionale, con la macchina da presa incollata a volti, mani, corpi che cercano di restare composti mentre dentro qualcosa si incrina. La messa in scena è semplice, in apparenza, niente virtuosismi che distraggono, niente bisogno di dimostrare quanto il film sia furbo, e proprio per questo il linguaggio resta sobrio e lascia respirare dialoghi, pause e silenzi carichi.

Città del Messico non è sfondo decorativo, ma un organismo caotico, rumoroso, pieno di pioggia, che amplifica la sensazione di sovraccarico. Molto succede in interni, appartamenti, uffici, automobili, luoghi teoricamente protetti che però funzionano come piccole gabbie mentali.

Guardandolo con un minimo di attenzione, è difficile non vedere un discorso sulla salute mentale, quando a cedere non è la caricatura del folle, ma persone brillanti, efficienti, ammirate, che a un certo punto non riescono più a sostenere il personaggio. C’è anche una dimensione di genere molto evidente, senza bisogno di spiegazioni, perché queste donne arrivano al limite dopo anni di cura invisibile, carico emotivo dato per scontato, autocontrollo per non essere giudicate esagerate.

Las locuras si interessa meno a che cosa succede fuori e molto di più a come tutto questo si muove dentro di loro. Non vive di grandi eventi, ma di micro scarti, un confine superato, una frase che non si riesce più a ingoiare, un gesto che finalmente viene fatto o trattenuto. A volte sembra di guardare ricordi più che azioni, perché tutto si costruisce sui non detti e su quei momenti in cui non esplode niente, ma da lì in poi non si torna più indietro.

Cose che mi hanno convinta davvero

Il cast: È impressionante vedere quante attrici forti condividono lo schermo: Cassandra Ciangherotti, Naian González Norvind, Ilse Salas, Natalia Solián, Adriana Barraza, Mónica del Carmen, tra le altre. Non sono comparse emotive, ognuna ha un arco, un peso, uno spazio reale per esistere.

Il formato corale: Le sei storie non competono tra loro, si rispondono. Il filo che le unisce non è tanto la trama, ma la sensazione condivisa di essere arrivate a un punto di non ritorno, e questo dà al film una coerenza emotiva molto forte.

Il modo di trattare la salute mentale: Niente estetica romantica del genio che soffre, niente discorsetto didattico per spiegare diagnosi. Sono persone che fanno del loro meglio in un contesto che le schiaccia, e il film le guarda con serietà e rispetto.

La regia discreta: García non invade le scene, però si sente che c’è un occhio attento nella durata dei piani, nel modo in cui un silenzio viene lasciato respirare quel tanto che basta per farti capire che qualcosa è cambiato.

Quello che può lasciare perplessi

Ci sono momenti in cui il film sembra quasi teatrale, molto basato su dialoghi intensi in interni, e questo può stancare chi preferisce un cinema più dinamico. Alcune storie sono potentissime, altre sembrano più abbozzi di qualcosa che avrebbe avuto bisogno di più spazio.

Personalmente, però, preferisco questa irregolarità a quei drammi perfettamente levigati, pensati solo per scivolare via senza lasciare traccia. Qui almeno si sente il rischio, si sente che sta cercando di toccare qualcosa di reale e non solo di funzionare come prodotto.

La mia esperienza

Io non ero esattamente pronta, ma ci sono entrata lo stesso, pensando che sarebbe stato solo un film intenso, ben recitato. A un certo punto ho smesso di vederle come personaggi e ho iniziato a riconoscere piccoli pezzi di me in ognuna: la parte che tiene tutto sotto controllo, la parte che sorride per non creare problemi, la parte che sogna di fuggire ma continua a rispondere ai messaggi.

Sono uscita dal film stanca in quel modo strano che però fa bene, come dopo una conversazione difficile ma necessaria.

Las locuras non è il tipo di storia che ti dice “andrà tutto bene”, ma ti sussurra qualcosa come “non sei l’unica a essere arrivata al limite, e non è un fallimento”. A volte è l’unico punto onesto da cui ricominciare. E per questo trovo giusto che sia su Netflix, alla portata di chi ha voglia di guardare queste vite senza filtri e senza anestesia emotiva.

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