Immaginate Mary Shelley, l’autrice che ci ha dato Frankenstein, la regina del terrore gotico e una delle menti più visionarie del diciannovesimo secolo, che ci presenta una visione oscura e malinconica del futuro con L’ultimo uomo. Scritto nel 1826, questo romanzo apocalittico racconta una pandemia che devasta l’umanità — ed è stato pubblicato più di 150 anni prima che nascessero le distopie che amiamo (o temiamo?) oggi. Ma L’ultimo uomo è molto più di una semplice previsione della fine dei tempi; è una sorta di confessione letteraria ed emotiva di una donna che ha affrontato perdite devastanti e ha usato la finzione per elaborare il proprio dolore.

Ma L’ultimo uomo non è una semplice storia di pestilenze e sopravvivenza. Vediamo la trama: la storia si svolge nel “lontano” ventunesimo secolo (visto dall’ottica del diciannovesimo, ovviamente!), e il protagonista è Lionel Verney, che diventa l’ultimo sopravvissuto di una pandemia mortale che cancella l’umanità dalla faccia della Terra. E, sebbene questa trama sembri un invito alla disperazione più pura, Mary Shelley utilizza il viaggio di Lionel per riflettere su una domanda profonda: cosa significa essere l’ultimo della propria specie? È un libro in cui la solitudine, il lutto e il vuoto si intrecciano in una ricerca di significato in un mondo in cui tutto è già stato perso.

All’inizio, Lionel Verney è quasi un emarginato, un outsider, ma la sua vita cambia quando si avvicina ad Adrian, il Conte di Windsor, un idealista che crede in una società più giusta e libera. Questo Adrian non è un personaggio qualsiasi, e chi conosce la vita personale di Mary Shelley può scorgere un omaggio diretto al suo grande amore e marito, Percy Bysshe Shelley. Non è un caso che Adrian possieda quell’idealismo quasi ingenuo, la testa piena di grandi sogni per il futuro e un cuore puro; è Mary che immortala Percy, che, come Adrian, era noto per la sua passione per le cause sociali e per quella che chiamiamo “poesia della libertà”. Percy Shelley era un poeta romantico con una mente rivoluzionaria, qualcuno che metteva costantemente in discussione i valori della società, i limiti della moralità e i legami affettivi. Credeva che l’umanità potesse, in qualche modo, superare i suoi limiti più oscuri. Mary scriveva, sognava e progettava un futuro con Percy, un futuro che non avrebbe mai immaginato di perdere così presto.

All’epoca, Percy era amico di una troupe letteraria di rilievo, tra cui nientemeno che Lord Byron, altro poeta con un gusto per la ribellione e le cause libertarie. Anche Byron è qui, nascosto nel personaggio di Raymond, un avventuriero che combatte per la Grecia nella guerra d’indipendenza, e la cui passione per la libertà finisce per diventare causa della sua stessa distruzione. È interessante come Mary utilizzi questi personaggi non solo per omaggiare, ma anche per esplorare ciò che queste figure rappresentavano per lei. Adrian (Percy), Raymond (Byron) e la moglie di Raymond, Perdita, formano una sorta di cerchia in cui grandi idee, sogni e passioni si mescolano — fino a quando la peste, l’elemento che dà al romanzo un tocco di horror e fatalismo, inizia a devastare il mondo e a distruggere tutto ciò che hanno costruito e amato.

Con la peste che avanza e i personaggi che muoiono uno ad uno, Mary trasforma L’ultimo uomo in una sorta di rituale d’addio. Ogni morte riflette una perdita reale nella sua vita: il figlio, il marito, gli amici. All’epoca, la società non aveva particolare simpatia per il tipo di dolore che Mary stava vivendo, soprattutto essendo una donna vedova, scrittrice e madre che sopravviveva in un mondo in cui tutti attorno a lei morivano. Così, lei prende quel dolore e lo trasforma in parole, canalizzando il suo lutto e i suoi ricordi nei capitoli in cui Lionel vede i suoi amici e amori scomparire per sempre. La solitudine di Lionel è lo specchio della solitudine di Mary. In un certo senso, Mary Shelley stava vivendo il proprio apocalisse, e L’ultimo uomo è stato il modo che ha trovato per affrontare l’intensità della propria esistenza.

E, infine, rimaniamo solo noi e Lionel. Ora è “l’ultimo uomo”, l’unica voce che risuona su un pianeta deserto. Vaga per l’Europa deserta, senza più amici, senza amore, senza futuro. Tutta la grandiosità delle ambizioni umane, gli ideali di libertà, i dibattiti su giustizia e uguaglianza… tutto svanisce nel silenzio. Lionel porta non solo la memoria dei suoi amici, ma di tutta l’umanità, e l’opera diventa una riflessione su cosa significhi esistere quando non c’è più un “altro” con cui condividere tale esistenza. Ciò che rende questa storia così inquietante è il viaggio interiore di Lionel — non lotta solo per sopravvivere fisicamente, ma per trovare uno scopo, qualcosa che giustifichi la propria esistenza quando non c’è più nessuno intorno.

Quando il libro uscì, il pubblico non era pronto. L’ultimo uomo fu duramente criticato e dimenticato per decenni. All’epoca, le persone cercavano il puro romanticismo, la speranza, l’eroe e il lieto fine; e il tono cupo e devastante di Mary non venne accolto. Eppure, oggi, questo libro è riscoperto come un’opera in anticipo sui tempi, una sorta di profezia letteraria sulla fragilità della nostra esistenza e sul potere brutale della natura nel ricordarci che, alla fine, siamo tutti solo passeggeri in un mondo vasto e indifferente.

L’ultimo uomo è una lettura densa, intensa, che ci mette di fronte alle nostre stesse paure — la solitudine, la perdita, la fine di tutto ciò che conosciamo. Mary Shelley anticipa la solitudine di un mondo senza umanità e ci sfida a pensare cosa significhi essere umani quando non c’è più un “noi”. Ci consegna una narrazione che non parla solo di sopravvivere alla fine del mondo, ma di imparare a vivere dopo di essa. Affrontare la fine è una cosa, imparare a esistere dopo di essa è tutt’altra sfida.

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4 risposte a “L’ultimo uomo”

  1. Non l’ho letto e da quel che scrivi penso meriti attenzione ma non credo di voler affrontare tematiche di questo tipo in questo momento. Mi ha ricordato Dissipatio H.G. di Guido Morselli in cui le premesse sono all’opposto (scompare l’umanità intera e rimane un solo uomo a riflettere sul significato di quanto è accaduto e di quello che lo aspetta). Se la Shelley (se ho compreso bene) era mossa catarticamente dal bisogno di dare voce al dolore per le proprie perdite, Dissipatio H.G. é scritto da un uomo che a breve deciderà di porre fine alla sua vita e che sembra aver voluto lasciare con questo romanzo una sorta di testamento spirituale.

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    1. Hai ragione, affrontare un libro come L’ultimo uomo non è affatto semplice…. e il collegamento che hai fatto con Dissipatio H.G. di Morselli è davvero molto interessante. Entrambi i libri si muovono attorno al tema della solitudine assoluta, ma penso che lo facciano con prospettive molto diverse: Mary Shelley sembra usare la scrittura per scavare tra le macerie del suo dolore, cercando un senso, una scintilla di umanità anche quando tutto è perduto. Morselli, invece, si confronta con un vuoto più filosofico quasi come se volesse fare un bilancio finale della sua esistenza e del mondo che lo circonda. È interessante come in entrambi i casi la solitudine diventi una lente potentissima per riflettere sulla condizione umana

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  2. Questo non l’ho letto, ma voglio proprio recuperarlo. Certi argomenti mi interessano, nonostante tutto

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    1. È un libro davvero particolare, intenso e pieno di spunti su cui riflettere. Quando lo leggerai, sono sicura che ti farà immergere in quel mondo così malinconico e potente. Poi sono curiosa di sapere cosa ne pensi!

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