Sono tornata. Dopo settimane di silenzio totale sul blog, eccomi qui. Non potevo restare zitta proprio adesso che Oppenheimer è finalmente arrivato su Netflix. Questo film non è solo cinema. È un’esperienza. Una botta emotiva. E diciamocelo, è il tipo di film che ti spinge a scrivere di nuovo. A sentirti viva. A voler urlare qualcosa nel vuoto.
Non è stato facile sceglierlo. Tra commedie leggere, drammi zuccherosi e serie che si divorano in due giorni, mi sono buttata su tre ore di tensione storica, morale e sonora. Mi sembrava il momento giusto. Avevo bisogno di qualcosa che mi scuotesse. Nolan, come sempre, non delude. Anzi, qui ti prende per i capelli e ti trascina dentro la testa di un uomo che ha cambiato il mondo. E non necessariamente in meglio.
La trama e l’ossessione
Il film racconta la vita di J. Robert Oppenheimer, interpretato da un Cillian Murphy che ti ipnotizza senza nemmeno muovere un muscolo. È lui il padre della bomba atomica, il fisico che ha guidato il Progetto Manhattan. Ma non aspettarti un film di guerra o un biopic classico. Questo è un viaggio nella colpa, nella mente brillante e tormentata di un uomo che ha visto il futuro e non è riuscito a fermarlo.
Lo stile Nolan: tempo, suono, caos
Nolan fa Nolan. Salti temporali, linee narrative intrecciate, dialoghi carichi come esplosivi. La scelta di alternare bianco e nero per i fatti oggettivi e il colore per le percezioni soggettive è geniale. E poi c’è il suono. La colonna sonora di Ludwig Göransson non è solo musica. È pressione. È ansia pura. Ci sono momenti in cui ti senti schiacciata dalla tensione, come se stessi respirando dentro una bomba pronta a esplodere.
Cosa funziona e cosa no
Funziona quasi tutto. Le interpretazioni sono potenti. Murphy è devastante. Florence Pugh ed Emily Blunt, anche se meno presenti, portano una forza silenziosa che rimane. La regia è precisa, chirurgica, eppure piena di emozione. Però sì, ci sono anche dei momenti pesanti. Il film a tratti sembra più una lezione universitaria che una storia da vivere. E manca qualcosa di essenziale: la voce delle vittime. Hiroshima e Nagasaki sono presenti solo come echi lontani. E forse è lì che il film avrebbe potuto colpire ancora più duro.
La mia esperienza (a casa, ma intensa)
L’ho visto sul divano, con il volume alto e la mente aperta. Dopo tre ore, ero svuotata. Ma anche lucida. È uno di quei film che non ti lascia uguale. Ti costringe a pensare. A metterti in discussione. E forse è proprio per questo che ho deciso di scriverne. Perché Oppenheimer non si guarda, si attraversa. E dopo, sei diversa.
Prometto che non sparisco di nuovo. O almeno ci provo.





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