Ogni tanto sento il bisogno di tornare all’inizio
non per nostalgia
ma per capire da dove è partito tutto questo che oggi chiamo “lingua”
le parole che uso per scrivere, per pensare….

Forse perché a forza di usare le parole tutti i giorni
ci si dimentica che sono nate in mezzo al caos
tra errori, dialetti, rabbia, poesia
e che, un tempo, nessuno sapeva che stava inventando una nuova lingua

Per questo sono tornata a scavare
non per cercare il “vero italiano”, spoiler: non esiste
ma per ascoltare i primi passi di una lingua che nasceva
mentre nessuno la stava aspettando

Quando la lingua scappa dal latino

Il latino era ovunque
nella chiesa, nei documenti
ma la gente parlava già un’altra cosa
e a un certo punto, qualcuno ha iniziato a scriverla

Indovinello Veronese (IX secolo)

Un piccolo enigma nascosto alla fine di un manoscritto religioso
forse scritto da un monaco annoiato
forse da qualcuno che non riusciva più a trattenere le immagini che gli uscivano dalla testa:

“Se pareba boves, alba pratalia araba,
albo versorio teneba, negro semen seminaba.”

È una metafora bellissima
le dita come buoi
il foglio come campo
la penna come aratro
l’inchiostro come seme

Non è ancora italiano
ma non è più latino
è quel mezzo linguaggio che si chiama futuro

Quando la lingua entra nei documenti

Placiti Campani (960–963)

Quattro atti notarili scritti in Campania
che parlano di terreni
possessi
confini

Eppure, la vera rivoluzione è che non sono scritti in latino
sono scritti in una forma di volgare
la lingua della gente
finalmente riconosciuta sulla carta

“Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti.”

È qui che il volgare smette di essere solo orale
e diventa anche ufficiale
documentato
storico

Quando la lingua litiga (e diventa arte)

Iscrizione di San Clemente (XI secolo)

Dentro la Basilica di San Clemente a Roma
in un affresco sacro
si legge questo scambio:

“Fili de le pute, traite!”

tradotto:
“Figlio di una prostituta, tira!”

Sì, davvero.
Un insulto inciso su una parete di chiesa
in volgare
in bella vista

E cosa ci dice questo?
Che la lingua viva, quella parlata tutti i giorni, aveva già trovato un posto nell’arte
nella religione
nelle pietre

Quando la lingua prende ritmo

Ritmo di Travale (XII secolo)

Un testo con ritmo, musicalità
dialoghi tra monaci
e una battuta finale che potremmo benissimo sentire oggi in un pranzo domenicale:

“Non posso mangiare tanto!”

È ironico
è quotidiano
ma è anche un primo esempio di lingua che si ascolta
non solo che si legge

Ritmo Laurenziano

Qui il tono cambia
più poetico
più costruito
più consapevole

Una serie di versi che suonano come una predica, un canto, una performance
nessuno sa esattamente cosa fosse
ma è sicuramente lingua viva
che prova a diventare letteratura

Perché tutto questo è importante?

Perché la lingua che parliamo oggi non è nata perfetta
è nata sbagliata
nata parlata
nata di corsa

E sapere questo cambia tutto
ci fa leggere con più attenzione
scrivere con più corpo
parlare con più memoria

Tornare alle origini non è guardare indietro
è ricordare che ogni parola ha una storia
che ogni frase porta con sé secoli di tentativi

E che, forse, anche oggi
quando scriviamo qualcosa senza pensarci troppo
stiamo contribuendo a qualcosa che ci sopravvive

e la letteratura, cos’è?

Forse è proprio questo:
quando le parole smettono di servire solo per dire qualcosa
e cominciano a vivere da sole

Nessuno di questi testi voleva essere arte
nessuno pensava di scrivere “letteratura”
ma eccoli qui
studiati, ricordati, amati

Perché dentro quelle frasi c’è qualcosa di più
c’è un gesto umano
una voce che non voleva sparire
un inizio inconsapevole

E forse è lì che tutto comincia davvero
tra le righe
nelle crepe
nelle frasi che nessuno voleva conservare
ma che, nonostante tutto
sono rimaste

6 risposte a “Perché tornare alle radici della lingua?”

  1. intanto una pagina notevole e affascinante, ne scrissi qualcosa tempo fa, forse in qualche maniera fa riferimento, ti lascio il link in caso avessi voglia di passare https://rosariobocchino.wordpress.com/2016/01/23/la-tradizione-orale/

    trattavo della tradizione orale che senza lingua sarebbe difficile solo anche da pensare, trasmettere ciò che dimora nella mente penso sia stato impellente e quale modo migliore se non “portare” le proprie melodie interne agli altri attraverso l’invenzione di un modo per farlo, ed ecco che la voce-lingua emerge prorompente e necessitante, utilizzando una fonetica via via più “comune popolare”, istantanea, evitando o irretendo la pomposità e l’erudizione troppo legate alla élite. Iniziando e trasformando la comunicazione anche attraverso l’onomatopea, “imitando” i suoni della realtà e addomesticandoli al pensiero. Una forma semplice ma diretta e immediatamente fruibile. Certo entra in gioco anche la “ricezione” della lingua soprattutto nel passaggio che descrivi benissimo in questo post, la comprensione insieme alla parola detta diventa cardine e basamento di ogni trasmissione/divulgazione. Riporto un piccolo aneddoto: quando ancora non esisteva tutta questa informatizzazione, registrare nelle liste comunali il nascituro avveniva oralmente, i genitori comunicavano all’addetto comunale le generalità del piccolo e capitava spesso d’imbattersi in situazione al limite dell’assurdo. Conosco personalmente un caso in cui sei fratelli hanno un cognome diverso: è bastata una vocale per dividerli in coppie da tre. Non ti racconto i malintesi e i disagi che hanno dovuto affrontare anche per un semplice atto notarile. Questo per significare quanto al lingua sia fondamentale e nondimeno la sua comprensione. Scusa la divagazione logorroica, ma i tuoi post “m’incitano” la mente e la memoria e credo anche giustamente. Buona domenica e grazie

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    1. Ma grazie a te, davvero! Che bel viaggio il tuo commento, mi ha fatto venire voglia di tornare a leggere con le orecchie. Perché è vero: prima della scrittura c’era il suono, il respiro, il ritmo, il gesto. E forse anche oggi, quando le parole scritte riescono a vibrare come se fossero dette, è lì che succede qualcosa di potente. Mi è piaciuto tantissimo l’aneddoto dei cognomi cambiati per una vocale. È quasi poetico, se non fosse tragicamente burocratico! Eppure dice tutto: la lingua è fragile, viva, trasformabile. E ogni parola detta o scritta è sempre un po’ un salto nel vuoto, con la speranza che arrivi dove dovrebbe.

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  2. Gli atti notarili dei Placiti Campani sono i più famosi che conoscevo anche io, tutti gli altri sono delle bellissime scoperte, mi è piaciuto un sacco il primo.

    Se una lingua è viva, per forza di cose si trasforma. Tornare alle origini è un ottimo esercizio per vedere quanta strada ha fatto l’italiano.

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    1. Grazie! Anche per me l’Indovinello è stata una sorpresa bellissima. Tornare alle origini fa proprio questo: ti fa vedere quanta strada ha fatto una lingua. E quanto ancora si muove.

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