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Avevo sentito parlare di Il fotografo di Mauthausen, ma non avevo mai trovato il momento giusto. Forse perché sapevo che, una volta premuto play, non ci sarebbe stato ritorno. E così è stato.
In un mondo pieno di filtri, pose studiate e stories da 15 secondi, vedere un film su un fotografo che ha usato la sua macchina per denunciare l’orrore dei campi di concentramento mi è sembrato… necessario. Quasi urgente. C’è qualcosa di profondamente attuale nel guardare il passato in faccia, senza distrazioni estetiche.
La trama, in breve
Il fotografo di Mauthausen, diretto da Mar Targarona, racconta la vera storia di Francesc Boix, fotografo catalano e prigioniero politico nel campo di concentramento di Mauthausen durante la Seconda Guerra Mondiale. Lavorando nel laboratorio fotografico delle SS, Boix ha avuto accesso a immagini che documentavano le atrocità commesse dai nazisti. Rischiando la vita, ha nascosto i negativi più compromettenti. Quelle foto diventeranno prove chiave nei processi di Norimberga.
Una storia già di per sé potente. Ma il film non si ferma al fatto storico. Va a scavare nella tensione, nella paura muta, nella resistenza silenziosa. Racconta il potere delle immagini e la responsabilità di chi guarda.
Regia e stile
Targarona sceglie toni freddi, desaturati, quasi monocromatici. Fa pensare a Schindler’s List, ma senza scimmiottarla. L’atmosfera è opprimente, i tempi dilatati, il silenzio pieno di rumore. Passi. Sospiri trattenuti. Occhi che comunicano molto più delle parole.
La regia è controllata, a tratti minimalista. Questo funziona, perché evita il melodramma. Ma a volte rallenta troppo, e la tensione rischia di affievolirsi. Però i dettagli fanno la differenza. L’inquadratura dietro una porta socchiusa. Il volto nascosto dall’ombra. Il terrore che si sviluppa come un’immagine nella camera oscura.
Attori e personaggi
Mario Casas è una sorpresa. Smagrito, scavato, con uno sguardo vuoto che racconta più di mille dialoghi. La sua interpretazione non è teatrale, è trattenuta. Boix non poteva permettersi di esplodere. Doveva sopravvivere. E fotografare.
I personaggi secondari sono meno sviluppati, a volte quasi sfocati. In un altro film sarebbe un difetto. Qui, forse, è una scelta consapevole. Nei campi, le persone diventavano numeri. Silhouettes. E anche questo ci viene fatto sentire.
La mia esperienza
Non è un film da vedere distrattamente. Ti prende dentro. Quando è finito, sono rimasta a fissare i titoli di coda. Non per il bisogno di sapere “come va a finire”, ma perché non volevo uscire subito da quella atmosfera. È uno di quei film che ti lascia un’eco dentro. Non piangi, ma ti si chiude lo stomaco.
Più che un film storico, Il fotografo di Mauthausen è un monito. Ricordare è un atto politico. Documentare è resistere. E oggi, forse più che mai, è fondamentale non distogliere lo sguardo.
Se l’hai visto, parliamone. Se non l’hai ancora fatto, prenditi il tempo giusto. Non ti intrattiene, ti interroga. Perché, alla fine, anche noi spettatori abbiamo una responsabilità: cosa facciamo con ciò che abbiamo visto?





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