Trovo sempre affascinante quando una serie decide di affrontare il male vero, quello storico, e allo stesso tempo mettere in discussione il nostro sguardo. Monster: The Ed Gein Story, terza stagione dell’antologia di Ryan Murphy, nasce proprio da qui: dal punto d’incontro tra il true crime e il cinema, tra la cronaca nera e il nostro desiderio di capire,o forse solo di guardare.

Le stagioni precedenti (su Jeffrey Dahmer e i fratelli Menendez) avevano già sondato le fratture del sogno americano, ma Ed Gein è un’altra cosa. Non è solo un assassino, è l’origine mitica del mostro moderno. Da lui discendono Norman Bates, Leatherface, Buffalo Bill, intere genealogie dell’orrore nate da una fattoria nel Wisconsin e da un’infanzia avvelenata dal fanatismo religioso.

Trama e atmosfera

La serie procede lenta, densa, come un incubo che non vuole finire. Seguiamo Ed Gein (interpretato da un sorprendente Charlie Hunnam) dalla sua infanzia isolata, dominata da una madre ossessiva e puritana, una Laurie Metcalf da brividi, fino al momento in cui la realtà si spezza. Gli episodi alternano passato e presente, come se la mente di Ed fosse un labirinto che si piega su sé stesso.

La casa è il vero personaggio del racconto. Gli ambienti si stringono, le pareti sembrano respirare, il silenzio diventa materia. Più che paura, provoca un’inquietudine costante,quella sensazione che il male non sia “fuori”, ma già dentro, in attesa.

Regia, estetica e linguaggio cinematografico

La regia alterna un realismo sporco a momenti quasi pittorici. La fotografia lavora su tonalità fredde e terrose, che diventano sempre più cupe man mano che la storia scende nell’abisso. I movimenti di macchina sono lenti, spesso esitanti, come se anche la cinepresa provasse disagio nel filmare ciò che vede.

È un horror psicologico ma con struttura da tragedia greca, il destino è segnato, e ciò che resta è la consapevolezza della catastrofe. L’uso del suono è magistrale: scricchiolii, respiri, passi nel fango, tutto contribuisce a creare un realismo sensoriale che sostituisce il gore con l’angoscia. Qui la paura nasce dal quotidiano, da ciò che riconosciamo.

Cosa funziona e cosa no

Quello che funziona, e tanto, è l’ambizione. Monster non si accontenta di raccontare i delitti, tenta di capire come un contesto sociale, religioso e familiare possa generare un individuo così distorto. Hunnam regala un Ed Gein fragile e inquietante, mentre Metcalf incarna il fanatismo materno con una precisione quasi teologica.

Ma la serie inciampa a tratti nel suo stesso peso. Alcune sequenze si dilatano oltre il necessario, altre sembrano trattenersi proprio quando dovrebbero osare di più. C’è un equilibrio precario tra introspezione e spettacolo, e a volte la messa in scena sfiora quel limite di estetizzazione che rischia di svuotare l’orrore. È un lavoro coraggioso, ma non sempre compatto.

La mia esperienza di visione

Guardarla è stata un’esperienza coinvolgente, quasi viscerale. All’inizio mi sono avvicinata con curiosità, pensando di guardare una delle tante serie true crime ben fatte, ma dopo pochi minuti ho sentito un peso nello stomaco. L’atmosfera della casa di Ed Gein sembra uscire dallo schermo: è densa, claustrofobica, ti avvolge piano. Alcune scene non colpiscono per ciò che mostrano, ma per ciò che suggeriscono, e ti restano addosso come un’eco.

Mi ha colpito il modo in cui la serie riesce a spostare l’attenzione dal mostro al meccanismo che lo genera. Non è mai facile trovare un equilibrio tra empatia e paura, ma Monster ci riesce almeno in parte: a volte ti costringe a vedere il male non come qualcosa di lontano, ma come una ferita del mondo che abitiamo tutti. Ho finito l’ultimo episodio con una certa inquietudine, ma anche con gratitudine perché è raro, oggi, che una serie riesca a farti pensare davvero, non solo a intrattenerti.

Dal punto di vista teorico, è interessante come Monster interroghi il nostro sguardo. Ci chiede: perché vogliamo vedere il male? Cosa succede quando il dolore diventa spettacolo? È una domanda che attraversa tutto il cinema dell’orrore, da Hitchcock in poi, e qui torna in forma di riflessione silenziosa più che di provocazione.

C’è anche una lettura sociale forte. Ed Gein appare come il prodotto estremo di una cultura che esalta la purezza e condanna il desiderio, che trasforma la fede in colpa e il corpo in tabù. In questo senso, la serie è anche una critica al patriarcato e alla morale rigida che può distruggere invece di proteggere.

E poi c’è la parte più cinematografica, quella che mi ha davvero affascinata: Monster sa di parlare anche del cinema stesso. Ci ricorda che Gein è il punto d’origine di tanti personaggi dell’orrore che abbiamo visto sullo schermo per decenni. È come se Murphy ci chiedesse: “Quante volte abbiamo già raccontato questa storia, solo con un nome diverso?”.

Alla fine, più che una storia su un assassino, Monster: The Ed Gein Story è un racconto sul potere delle immagini e sulla nostra relazione con ciò che ci spaventa. Non è una serie perfetta, a volte rallenta troppo, a volte si nasconde dietro la bellezza delle sue inquadrature, ma è un’esperienza che resta. Disturbante quanto basta per far riflettere, mai gratuita. E forse è proprio per questo che funziona, perché ci ricorda che l’horror, quando è fatto bene, non parla solo di paura, ma anche di umanità.

5 risposte a “Monster: The Ed Gein Story”

  1. Una serie da recuperare, allora… se mai ce la farò.
    Bellissima e ricca la tua recensione.

    Piace a 1 persona

    1. grazie di cuore! sì, guardala quando sei nel mood giusto, perché … ci sono parti davvero disturbanti

      Piace a 1 persona

  2. Ho visto le altre che citi e guarderò anche questa di cui ho sentito pareri discordanti e critiche soprattutto sul piano dell’aderenza storica. In ogni caso aspetterò un po’ perché se come scrivi è così viscerale non è il momento giusto.

    Piace a 1 persona

    1. Sì, capisco perfettamente. È una serie che chiede il momento giusto, perché non si limita a raccontare ma ti trascina dentro un certo tipo di oscurità. Anche io ho sentito le critiche sull’aderenza storica, e in effetti Murphy tende sempre a piegare la realtà alla sua visione estetica, a volte più simbolica che documentaria. Però, se la prendi come un racconto sul modo in cui costruiamo i “mostri” più che sulla cronaca in sé, diventa molto interessante. Quando avrai voglia di qualcosa di intenso ma non necessariamente confortevole, allora sì, merita

      "Mi piace"

Lascia un commento

In voga