C’era da tempo la voglia di guardare qualcosa che non fosse solo intrattenimento ma anche documento. Una storia che, pur parlando di un crimine, parlasse anche di una società, di una memoria, di un modo di guardare il male. E allora è arrivato Il Mostro, la miniserie Netflix diretta da Stefano Sollima che ricostruisce il caso del Mostro di Firenze, una delle vicende più oscure e controverse della storia italiana.
Quattro episodi appena, ambientati tra il 1968 e il 1985: anni di terrore, di sospetti, di paure che si insinuano nelle case, nei bar, nei giornali.
La trama
In un piccolo pezzo di Toscana, la normalità si spezza. Coppie giovani vengono uccise in auto, di notte, nella campagna. Stessa arma, stessi rituali, stessa scia di terrore. Le indagini si moltiplicano, i sospetti pure. Anni e anni di processi, piste sbagliate, ossessioni.
Il mostro non è solo chi spara, ma anche chi indaga, chi giudica, chi osserva. La serie alterna la cronaca all’indagine, mescolando documenti, testimonianze e ricostruzioni, in una struttura narrativa che mette lo spettatore nel ruolo scomodo di testimone.
La direzione e lo stile
Sollima lavora per sottrazione, niente melodramma, niente suspense artificiale. La tensione nasce dallo spazio stesso, da quella campagna toscana filmata come un luogo sospeso, dove il silenzio pesa più delle parole. È una regia che sembra trattenere il fiato, e proprio in questa distanza nasce il disagio. Il suo stile è quasi documentaristico, ma con una precisione estetica che non lascia nulla al caso: la macchina da presa osserva, resta indietro, come se avesse paura di contaminare la scena che registra.
E in questa osservazione trattenuta si insinua il paradosso visivo che più mi ha colpito: la bellezza naturale del paesaggio e l’orrore che vi si nasconde. Il sole che illumina il male, il verde che diventa minaccia. È un’estetica del contrasto, dove il cinema non mostra soltanto, ma interroga lo sguardo stesso. Da un punto di vista teorico, potremmo parlare del dispositivo dello sguardo: non siamo spettatori neutri, ma parte del meccanismo della paura. Guardiamo, e allo stesso tempo siamo guardati.
Da qui la serie si apre a un livello più profondo, quasi sociologico. Il Mostro non racconta solo un assassino, ma una società che, per sentirsi innocente, ha bisogno di costruire un colpevole. L’Italia che Sollima ritrae è quella del post-boom economico, ancora divisa tra la morale cattolica e la libertà sessuale, tra la fiducia nelle istituzioni e la diffidenza verso di esse. Le coppie assassinate diventano così il simbolo di un desiderio proibito: il piacere, l’intimità, l’autonomia. L’assassino, allora, non è solo un individuo ma una funzione collettiva, una punizione che la società infligge a se stessa.
In questo senso, Sollima mette in scena una vera e propria crisi del reale, il confine incerto tra documento e finzione, tra memoria e messa in scena. Ogni inquadratura sembra chiedere quanto ci sia di vero in ciò che ricordiamo e quanto, invece, sia proiezione, paura, costruzione mediatica. Il “mostro”, forse, nasce proprio lì: nello sguardo collettivo che trasforma il trauma in racconto, e il racconto in mito.
Punti positivi
- L’atmosfera ipnotica: ogni episodio è denso, pesante ma necessario.
- L’uso della luce e del silenzio come strumenti narrativi.
- La scelta di non spettacolarizzare la violenza ma di mostrarne il peso.
- L’attenzione alle implicazioni sociali e culturali del caso.
Punti negativi
- La durata breve (quattro episodi) lascia il desiderio di maggiore approfondimento.
- Alcune linee narrative si chiudono in modo affrettato.
- Per chi non conosce la storia, la quantità di nomi e processi può risultare confusa.
La mia esperienza
Ho iniziato pensando “vedrò un episodio e basta” e mi sono ritrovata a guardare tutti e quattro, uno dietro l’altro. La serie non spaventa nel senso classico, ma ti logora piano. Ti mette di fronte all’idea che il vero orrore non è l’atto violento, ma la persistenza del sospetto.
Mi sono trovata a mettere in pausa più volte, non per distrazione, ma per respirare. Alla fine, mi è rimasto addosso un senso di tristezza lucida, quella sensazione che il male, quando lo raccontiamo, non sparisce: semplicemente cambia forma.





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