Sai quando apri Netflix senza troppe aspettative e finisci per inciampare in un film che ti cambia l’umore? Così è stato con Pietro il fortunato , cercavo qualcosa di intenso, un po’ malinconico e il titolo mi ha fatto sorridere perché la “fortuna” di questo Pietro è tutt’altro che semplice.
Trama
La storia, tratta dal romanzo di Henrik Pontoppidan, segue Per Sidenius, figlio di un pastore protestante cresciuto in un ambiente rigido e religioso nella Danimarca di fine Ottocento. Brillante e ambizioso, decide di lasciare la sua casa per studiare ingegneria a Copenaghen, sognando di liberarsi dal peso del passato e diventare un uomo moderno, artefice del proprio destino. Nella capitale entra in contatto con la società borghese e intellettuale del tempo, dove il progresso tecnologico sembra promettere un nuovo mondo.
Il film segue il suo cammino di ascesa, ma anche le crepe che si aprono dentro di lui man mano che cerca di conciliare la razionalità della scienza con le ferite e i sensi di colpa lasciati dalla sua educazione religiosa. Nel suo percorso incontra persone che lo sfidano, lo ispirano e lo costringono a confrontarsi con ciò che teme di più: l’idea che la libertà non si ottiene semplicemente fuggendo dalle proprie origini. È una storia di ambizione e identità, ma anche di fede, desiderio e disillusione.
Regia e stile
Bille August, già vincitore della Palma d’Oro, dirige con una calma quasi ipnotica. Ogni inquadratura è costruita come un dipinto nordico, con toni freddi e una luce naturale che racconta più dei dialoghi stessi. I movimenti di macchina sono lenti, misurati e la macchina da presa osserva da lontano, come se sapesse che il protagonista è destinato a cadere. È un film che appartiene pienamente alla tradizione del realismo europeo: niente melodramma, solo la cruda verità delle cose e dei silenzi.
Pietro il fortunato parla anche della modernità e del mito del progresso. Per vuole emanciparsi da Dio e dalla povertà per costruire un futuro fatto di scienza e ingegneria ma finisce per scoprire che la libertà senza radici può diventare un’altra forma di prigionia. È il ritratto di un uomo che vuole dominare la natura ma viene sconfitto proprio dal suo orgoglio. In questo senso, il film è anche un commento sociologico sulla Danimarca del XIX secolo, ma in realtà parla di tutti noi, oggi, che cerchiamo di essere “qualcuno” in un mondo che misura il valore solo attraverso il successo.
Punti positivi
La fotografia è splendida, ogni scena è curata nei minimi dettagli. Le interpretazioni sono intense, soprattutto quella di Esben Smed, che riesce a incarnare la contraddizione di un uomo geniale ma fragile. La regia non cerca mai di manipolare lo spettatore, ti lascia osservare, riflettere, scegliere da che parte stare. È un film coerente con sé stesso, elegante, e pieno di simboli nascosti.
Punti negativi
La durata è impegnativa, quasi tre ore che richiedono concentrazione e pazienza. Alcune sequenze risultano un po’ statiche e la lentezza della narrazione può scoraggiare chi è abituato a un ritmo più dinamico. In certi momenti si ha la sensazione che August voglia restare troppo fedele al romanzo, sacrificando un po’ di energia cinematografica in favore della precisione letteraria.
La mia esperienza
Devo dire che ho vissuto il film come un viaggio interiore: lento, faticoso, ma pieno di scoperte. Mi ha fatto pensare a quanto spesso cerchiamo la fortuna fuori, quando in realtà la battaglia più grande è dentro di noi. Sono uscita dal film stanca ma affascinata come dopo una lunga conversazione che non vuoi finire. Non è un film per tutti ma se amate il cinema d’autore, i drammi psicologici e le storie che scavano nella coscienza, vale assolutamente la pena.





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