Dopo tre giorni di realismo morale, avevo bisogno di una fiaba.
Ma non una fiaba che addolcisce il mondo, una che lo illumina dal basso, come fanno le candele nelle chiese quando l’elettricità manca.
Un bambino chiamato Natale fa proprio questo, prende il mito di Babbo Natale, lo spoglia del consumo e del folklore, e lo racconta come se fosse la storia di un atto di coraggio collettivo.
Perché questo film
L’ho scelto perché è una delle poche storie natalizie recenti che riesce a parlare a bambini e adulti con la stessa onestà. Non promette un lieto fine immediato, ma la possibilità che la speranza torni a esistere.
Ed è interessante come il film, tratto dal romanzo di Matt Haig, riesca a trasformare un archetipo pop in qualcosa di universale, non il vecchio con la barba bianca che porta i doni ma un bambino che crede in ciò che gli adulti hanno dimenticato.
Trama
Nikolas vive con suo padre in una capanna sperduta nella Finlandia del Nord.
Sono poveri, ma un giorno il re indice una missione di trovare il villaggio degli elfi per restituire la speranza al regno.
Il padre parte, lasciando Nikolas da solo e da lì comincia il viaggio, quello esteriore tra montagne e foreste, e quello interiore tra paura e fiducia.
Nel suo cammino, Nikolas incontra animali parlanti, elfi, magia, ma anche la durezza degli adulti che non credono più in nulla.
E quando alla fine diventa il simbolo del Natale, non lo fa per potere o fama, lo fa per ricordare agli altri che la bontà esiste ancora, anche se non conviene.
Regia e stile
Il film è diretto da Gil Kenan (lo stesso di Monster House), e alterna momenti di realismo nordico a immagini di pura meraviglia.
L’estetica è quella delle grandi fiabe europee – neve, luce, silenzio – ma con un ritmo moderno e un’ironia gentile.
La fotografia fredda, quasi blu, si scalda via via che Nikolas cresce e scopre il suo destino: è un viaggio visivo dalla notte alla luce.
La narrazione incorniciata da Maggie Smith, che racconta la storia ai nipoti, è un omaggio alla tradizione orale, come se ogni Natale per rinascere, avessimo bisogno che qualcuno ci racconti di nuovo la stessa cosa, ma con parole diverse.
Temi e riflessioni
A colpire non è tanto la magia in sé ma il modo in cui il film la tratta, come una forma di fede laica.
Gli elfi non rappresentano il soprannaturale ma la parte del mondo che gli adulti hanno smesso di vedere, quella che crede ancora nella gentilezza, nel dono, nell’impossibile.
E Nikolas, con la sua testardaggine luminosa, diventa una metafora del racconto stesso: continuare a raccontare anche quando nessuno ascolta più.
C’è anche una vena malinconica molto bella, la magia non cancella la perdita, la attraversa.
Il Natale non risolve i dolori, li rende condivisibili.
È come se il film dicesse che sperare non significa credere che tutto andrà bene, ma che qualcosa di buono può ancora nascere dal buio.
Punti positivi
- Una fiaba che parla al cuore senza infantilizzare lo spettatore.
- Visualmente meraviglioso, con una fotografia che costruisce la luce passo dopo passo.
- La struttura a cornice con Maggie Smith aggiunge profondità e calore.
- Colonna sonora delicata e coerente con il tono del racconto.
Punti negativi
- Alcune parti del film restano un po’ prevedibili per chi conosce la struttura classica del viaggio dell’eroe.
- L’equilibrio tra ironia e dramma non sempre è perfetto, a tratti il tono cambia bruscamente.
Perché guardarlo a Natale
Perché ci ricorda che la magia non è una fuga, ma una forma di memoria.
E che il Natale non è mai un premio, ma una promessa che si rinnova ogni volta che qualcuno, anche solo per un attimo, decide di credere nel bene.





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