Il 26 dicembre è ufficialmente il giorno del “e adesso?”. Il Natale è già passato, Capodanno non è ancora arrivato, la casa è un po’ in disordine, la testa pure. Ed è esattamente per questo che io consiglio di vedere Kitbull oggi, 26/12.

È quel cortometraggio della Pixar che sembra parlare di un gatto e di un cane, ma in realtà parla di trauma, vulnerabilità e della possibilità di ricominciare da un posto dove, teoricamente, non c’è niente.

Io l’ho visto prima, me lo sono tenuto dentro, ci ho pensato, e ho deciso che era il tipo di film perfetto proprio per questo limbo di fine anno.

La trama

In meno di dieci minuti seguiamo:

  • una gattina randagia, nervosa, abituata a cavarsela da sola, sempre in modalità difensiva;
  • un pitbull usato nei combattimenti, incatenato, ferito, in cerca di qualsiasi forma di affetto.

Condividono un cortile un po’ abbandonato, pieno di spazzatura, recinzioni e rumori di città. All’inizio è solo scontro: lei si irrigidisce, lui prova ad avvicinarsi, tutto va storto.

Piano piano, però, qualcosa cambia attraverso gesti minuscoli:
una tappina di bottiglia che diventa un gioco, un gesto di protezione, un pezzo di cartone condiviso.

Non c’è nemmeno una battuta di dialogo a spiegare l’emozione, è tutto fatto di sguardi, corpi che si ritraggono e poi osano avvicinarsi. È la storia di due esseri rotti che, quasi per caso, scoprono che forse si può tornare a fidarsi.

Regia & stile

Diretto da Rosana Sullivan, Kitbull si distingue subito per lo stile:

  • è animato in 2D disegnato a mano, invece del 3D super lucido tipico della Pixar;
  • il tratto è semplice, quasi fragile, pieno di linee che sembrano un po’ “insicure”, esattamente come i personaggi;
  • fa un uso del silenzio molto forte

La “camera” è quasi sempre bassa, all’altezza degli animali. Gli umani non sono al centro della scena, spesso nemmeno li vediamo in volto. Questo sposta il punto di vista: non è la storia del “bravo umano”, ma quella di due animali che provano a sopravvivere a un mondo che non è fatto per loro.

È un corto che si fida dello spettatore: non ti dice cosa sentire, lascia che ci arrivi tu.

Punti di forza

Perché lo consiglio con tanta convinzione:

  • Economia narrativa incredibile: in nove minuti c’è tutto, personaggi, conflitto, climax, cambiamento;
  • Costruzione dei personaggi senza una parola: è tutto nel modo in cui si muovono, nel tempo che ci mettono a fidarsi;
  • Scelta estetica coerente: il tratto semplice non è povertà di mezzi, è linguaggio;
  • Finale speranzoso ma non ingenuo: non cancella il trauma, ma apre uno spiraglio.

La mia esperienza

Io Kitbull l’ho visto prima e mi è rimasto addosso. Non solo per la storia ma per quella sensazione strana che lascia dopo, una miscela di dolore antico, tenerezza e una speranza un po’ timida.

Se decidi di seguire il mio consiglio e vedere Kitbull ti direi:

  • guardalo con calma, senza distrazioni;
  • fai attenzione ai dettagli dei movimenti, agli sguardi;
  • e, se ti scappa una lacrima, lasciala andare. Non è esagerazione, è solo un corto di cane e gatto che tira fuori cose che cerchiamo di nascondere.

E poi dimmi: ti sei sentita più gattina ferale, più pitbull gigante e vulnerabile, o un po’ tutti e due?

2 risposte a “Kitbull”

    1. Bello, e molto più profondo di quanto sembri a prima vista

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